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Monza-Montevecchia (MoMot)

Più bella? Più dura? Più lunga? Più combattuta? Non so. Sicuramente diversa. E' stata la stessa gara, ma è stata diversa. Non tutte le corse lo possono essere. Eppure è come se l'avessi fatta per la prima volta. Gli attimi prima del via sul piccolo palco davanti alla Villa Reale di Monza mi sono sembrati un déjà-vu, ma dopo i primi chilometri i ricordi hanno lasciato spazio a nuove sensazioni. Non sono cambiate le colline verdi che ricoprono la Brianza, non sono cambiati i lunghi dritti sentieri che attraversano i campi coltivati, non è cambiato il fresco mitigatore del sottobosco della Valle del Curone, non è cambiato il panorama che si allarga ad ogni passo risalendo la mulattiera verso il Santuario di Montevecchia. Non è cambiato. Ma il sole alto e caldo che ci ha seguito come una stella cometa ha trasformato tutto in una nuova e più dura sfida. Verdi campi fioriti che sono sembrati aride pianure desertiche. Alte dolci colline diventate cime invalicabili. Placidi freschi torrenti trasformati in silenziosi letti di ciottoli abbandonati. Percezioni che si sono mischiate alla fatica della corsa rielaborando un mondo che era sembrato fatato. Forse è questo il segreto della MoMot, una corsa che ci ha stregato.

Si ringraziano Marco Brioschi, Roberto Mandelli e Podisti.net per la gentile concessione sull'utilizzo delle fotografie.

Di avversari ce ne erano tanti. Sapevamo che non sarebbe stata una corsa facile. Il parterre di tutto rispetto, soprattutto per la nostra categoria (quella mista, nda), con Re Giorgio Calcaterra e Monica Carlin punte di diamante. Ma senza sottovalutare la coppia super-favorita Iozzia-Bottura (pluri-campionessa mondiale di maratona lei, grande atleta di vertice lui). E poi tutte le coppie papabili per un podio da conquistare, come i nostri eterni amici-avversari Anna e Davide e gli sconosciuti (per noi) Di Gregorio-Bossi e Serafini-Meroni. Già così un buon mix di partenza.

Poi c’erano da aggiungere le nostre condizioni fisiche. Chiara reduce da un bellissimo personal best alla Maratona di Padova (3h 09’) che però ha lasciato i segni per tutto il mese seguente, scaricando la tensione mentale e costringendola ad un lento recupero. Io che non correvo più di venti chilometri da metà ottobre, la mia maratona a Carpi. Vero che non avrei dovuto correre al massimo ed essere spinta e supporto per Chiara, ma allenare la velocità sui diecimila non è d’aiuto in una corsa che prevede 33,5 Km e 700 m di dislivello, tutti quasi in sterrato. Senza tener conto dei problemi alla schiena delle ultime settimane. Ma le sfide sono belle proprio perché devono essere dure.

Il percorso, non smetterò mai di dirlo, è uno dei più belli e affascinanti che si possano incontrare. Un passo fuori casa, dove le colline si riempiono di boschi subito dopo le campagne, tra piccoli paesi, letti di fiumi e piccoli torrenti. Duro e semplice allo stesso tempo, con i suoi lunghi e dritti sentieri di campagna, i rilassanti passaggi da cross tra gli alberi del Parco del Curone, i freschi guadi sassosi illuminati dal sole che a malapena riesce a farsi strada tra le foglie dei rami intrecciati. E le salite. Prima l’asfalto di Canonica, poi gli strappi lungo i campi, il ciottolato di Lomagna, le cascine di Missaglia per giungere alla mulattiera di Montevecchia. Un crescendo che abbatte piano piano le gambe, appesantisce i muscoli, annebbia la mente. E toglie il fiato.

Come il paesaggio, ma questa volta in senso positivo. Chi pensa al trail sogna i sentieri di montagna, in luoghi da sogno tra le valli delle Dolomiti, tra i laghi alpini della Val d’Aosta o tra i boschi degli Appennini. Ma non sa quale pace e calma regni appena fuori le porte di Monza. Basta allontanarsi dalle vie del traffico per ritrovarsi dispersi nel nulla. Chi ha disegnato il percorso deve amare profondamente quella terra per condividerla con altri trecento concorrenti e non tenersela tutta per sé. Ma ha anche avuto il buon senso di farla sudare. Non basta mettere un paio di scarpe e avere la voglia di correre per attraversarla. Ci vuole la voglia di essere davvero un runner.

Ma l’avversario numero uno, per tutti, è stato il sole. L’amico-sole che mi aveva affiancato alla staffetta della Unesco Cities Marathon questa volta ha dato il meglio di sé. Non ci ha mai abbandonato. Ci ha dato il benvenuto già alla Villa Reale di Monza molto prima della partenza, rassicurandoci che non ci avrebbe mai lasciato. Cielo azzurro e terso, senza nemmeno una nuvola. 30°C sfiorati alle nove di mattina. Chi aveva paura di ritrovarsi solo lungo il percorso ha dovuto presto ricredersi. Tre, quattro, per qualcuno anche cinque ore sempre insieme. Insistente, crescente, assordante, opprimente, asfissiante. Caldo. Con un abbraccio soffocante. E pesante. E’ stato lui il vero avversario da battere. Per questo chiunque sia arrivato al traguardo deve essere contento. Felice di aver vinto la sua personale gara.

Si ringraziano Roberto Mandelli e Podisti.net per la gentile concessione sull'utilizzo delle fotografie.

La nostra è scoccata alle 9:15. Classica partenza a cronometro con palco montato nel giardino fronte la Villa Reale del Parco di Monza e passerella in mezzo a pubblico ed avversari. Chi ben incomincia… I primi chilometri sono fortunatamente tutti immersi nell’ombra del parco. Giusto il tempo di scaldarsi e dare ritmo alle gambe senza andare subito in affanno. Il parco brulica già di runner e ciclisti come fosse un formicaio. Potere della corsa. Re Giorgio e Monica sono già avanti cinque minuti, insieme alla coppia Di Gregorio-Bossi e quindi fuori da ogni nostro controllo. Iozzia e Bottura non rientrano nemmeno nei nostri piani, seppur un po’ più indietro. D'altronde come potrebbero partendo a 3’ 45” al chilometro? Ci rimangono le alte due coppie, Serafini-Meroni avanti di una quarantina di secondi e Anna e Davide ultimi a chiudere il gruppo delle categorie miste trenta secondi più dietro.

La nostra strategia è semplice: correre. Fare la nostra gara, senza pensare agli altri e senza fare programmi. Trenta chilometri di salite sono tanti, quasi una maratona, e non si può sapere cosa può accadere lungo il percorso. Gli imprevisti ci sono e si devono tenere presenti. Per questo ho ripetuto a Chiara più volte, nelle settimane che hanno preceduto la gara, di non pensare di partire battuta da subito. Se le classifiche si facessero sulla carta non avrebbe senso gareggiare. E come nel calcio, le partite finisco al novantesimo minuto.

Risalire sul palco della partenza è stato uno shock tremendo. Un anno fa ancora non conoscevamo ancora cosa ci aspettasse. Adesso ne avevamo la consapevolezza. Ma come sempre capita, rimane solo quella delle cose positive. Quelle negative le avevamo dimenticate, ma le abbiamo poi riscoperte pian piano con gli interessi. Siamo partiti così, mano nella mano.

Avevo già suddiviso il percorso in cinque parti, ognuna caratterizzata da emozioni e ricordi particolari regalati dalla gara dello scorso anno. Il primo step è stato il più delicato, quello in cui fare più attenzione. Chiara è un diesel. Da buona scuola di trail, ha imparato a partire piano ed arrivare in crescendo. Gliel’ho visto fare più volte. Il problema in certe situazioni è però gestire il quanto-piano. Le gare a cronometro si giocano anche sui secondi a volte e un chilometro più lento o più veloce può fare la differenza. So anche però che partire troppo forte potrebbe essere, soprattutto per lei, negativo e rovinare il resto della gara. La gestione dei primi nove chilometri fino alla salita di Canonica sapevo sarebbe stata fondamentale. Ho dato io il ritmo, cercando di rimanere su un passo tra i 4’ 25” e i 4’ 30” che ci potesse permettere di iniziare con una buona velocità e passare subito le coppie più lente prima dei sentieri e, allo stesso tempo, non perdere troppo sui nostri diretti avversari.

Diversa la strategia di Anna e Davide che nel giro di qualche chilometro sentiamo arrivare alle nostre spalle quando siamo ancora immersi nell’ombra del parco. Conto le coppie miste che passiamo inizialmente, un po’ per occupare la mente, un po’ per capire quante ne restano davanti prima della fine. Quando i rettilinei si allungano e le curve si aprono poco più avanti riusciamo anche ad intravedere le maglie azzurre dell’altra coppia che ci precede. Tutto sotto controllo. Lasciato il parco alle nostre spalle, scendiamo verso il Lambro seguendo i campi attorno a Macherio in direzione Canonica. Siamo sempre in quattro. Noi davanti a fare il ritmo, Anna e Davide a ruota. Le distanze variano con variare dell’instabilità del terreno, ma fino al primo ristoro non ci separiamo.

Passati sull’asfalto della provinciale, iniziamo la prima salita. Non più lunga di cinquecento metri, ma già abbastanza ripida per appesantire le gambe. Chiara è affannata e il caldo comincia a farsi sentire. Avrebbe forse voluto iniziare un po’ più piano viste le condizioni climatiche e non farle indossare il gps ha avuto probabilmente il suo effetto benefico. Gps, al mio polso, che dal decimo chilometro in poi non ho più controllato per sapere la velocità, ma solo per conoscere il chilometro al quale ci trovavamo. Anche perché non avrebbe avuto senso. Il ritmo da lì in poi non sarebbe mai più potuto essere regolare, influenzato troppo dal terreno e dai continui strappi di salita e discesa.

Peccato che la prima variazione di percorso rispetto al duemilatredici sia stata proprio a Canonica. Qui c’era il primo bellissimo passaggio nel sottobosco dove Chiara aveva sfoggiato le sue doti di trailer e dove ci eravamo divertiti forse di più, non ancora troppo stanchi e con la voglia di spingere anche in salita. Ma è bastato attendere qualche chilometro sfilando lungo i sentieri tra i campi per ritrovarci comunque immersi nel primo bosco del Parco del Curone. Chiara è sembrata rinascere ed ho lasciato a lei le redini del ritmo. Un continuo su e giù, tra piccole collinette, qualche pozza di fango e i torrenti. Piccoli bassi torrentelli, lontano ricordo di quelli attraversati in piena un anno prima. L’altra cosa positiva di correre immersi tra gli alberi è stata l’ombra e il fresco. Rigeneranti. Un altro mondo. E in un attimo ci siamo ritrovati quasi soli. Anna e Davide si sono staccati e noi abbiamo iniziato una veloce rimonta tra le coppie che ci precedevano, accompagnati di tanto in tanto dall’arrivo di qualche veloce squadra maschile alle nostre spalle. Saluti e incitamento sono d'obbligo per tutti. Siamo alla MoMot. Quando ne siamo usciti eravamo quasi ormai a metà gara.

Ritrovarsi al sole è stato quasi un incubo. La fatica è fuoriuscita come se si fosse accumulata tutta in un secondo. Il tratto centrale (il terzo per come avevo suddiviso il nostro percorso) sembrava non finire più. Campi e qualche zona residenziale. Dritti monotoni sentieri e asfalto. Non ci fosse stata la pesante presenza del sole sulla testa forse ci saremmo riusciti a godere il panorama. In qualche tratto ho provato a distrarre l’attenzione di Chiara dalla fatica, ma la reazione non è mai stata quella che speravo. La seconda parte di gara l’abbiamo anche quasi corsa tutta insieme a Matteo e al suo compagno che ci avevano raggiunti poco prima nel boschetto. Ci siamo scambiati posizione più volte per arrivare poi quasi insieme al traguardo. E poco più avanti è ricomparsa la maglia azzurra dei nostri diretti avversari.

Passato Rogoredo abbiamo iniziato la discesa verso Lomagna. Discesa per modo di dire. Anche perché la temperatura ha cominciato a salire e le forze a scendere. Forse il passaggio più arido e con meno ristori. Ogni volta che ne abbiamo incontrati mi sono sempre svuotato una bottiglia in testa ed una l’ho tenuta con me per bere a piccole dosi durante il percorso. Ma è servito poco ad alleviare la voglia perenne di acqua e di ombra. Non so cosa possa voler dire a questo punto correre nel deserto. Con passo più o meno costante abbiamo proseguito. Chiara davanti nei piccoli tratti di bosco, io tra campi e asfalto. Ma poco prima di Lomagna la prima sorpresa. Al ristoro abusivo raggiungiamo e superiamo la maglia azzurra di Meroni, mentre di quella della compagna Serafini non c’è traccia. Poco importa, dato che è l’ultimo dei due a segnare il tempo del cronometro di gara.

Dovrei essere molto più fresco e pimpante di Chiara visto i ritmi, ma i chilometri cominciano a pesare anche sulle mie gambe. La Monza-Montevecchia non è certo una gara per principianti o da sottovalutare. Il tempo di salutare al volo qualcuno tra il pubblico che mi riconosce e iniziamo la parte più dura di tracciato. Lunghe e dure salite che si susseguono fino a raggiungere il ristoro-beta dove parte il gran premio della montagna. Prima la salita ciottolata di Lomagna, poi la doppia salita di Maresso a tagliare le gambe. Un trittico per spezzarci in due. Chiara è una smorfia di sofferenza. Sole in testa, sete, sudore che cola in viso. Le gambe sembrano due blocchi di cemento. La affianco, la tiro, la aspetto. Ci raggiunge Lorenzino, mio compagno alla Monza-Resegone, e anche lui ci farà compagnia nelle corse e rincorse prima dell’arrivo.

Ma sono la sete e l’afa il nemico più grande. Più la sofferenza aumenta, più vorremmo solo essere dentro ad un torrente ghiacciato. Ma non c’è più nemmeno la presenza sporadica dei freschi ruscelli a poter dare un po’ di sollievo a piedi e gambe per qualche minuto. Sfiliamo in un piccolo tratto di discesa tra l’erba alta circondata dai boschi. Sento arrivare alle spalle qualcuno e quando mi volto vedo Calcaterra. Ho paura che il sole cominci a fare brutti scherzi pur non trovandoci nel deserto. Ho anche pensato che magari stesse facendo già il secondo giro insieme alla Carlin. Ma quando gli chiedo se tutto è a posto mi dice di star tranquillo e che hanno solo sbagliato strada ad un bivio. Si accodano e in carovana con un piccolo gruppo che ci precede arriviamo ai piedi della salita più dura, i duecento metri di dislivello che in poche centinaia di metri ci porteranno in cima al Santuario di Montevecchia.

Partiamo insieme. Per far forza a Chiara le dico che al momento abbiamo anche un buon vantaggio di cinque minuti su Re Giorgio e Monica. Come detto in partenza: non puoi sapere a priori cosa succederà in gara. Ma non ci mettono molto a smorzare la nostra fiducia. Nel giro di un minuto ci rifilano un buon centinaio di metri di vantaggio. Ma i conti si faranno alla fine. La salita è dura. Prima un largo sentiero di ghiaia bianca, una piccola spiana con discesa che ammazza definitivamente i muscoli e poi la mulattiera finale. Corriamo fin dove le forze tengono. Corsa che poi diventa un passo veloce e poi un arrancare. E il sole fa compagnia. Aumentano i metri di salita e aumenta la fatica. Vedo Chiara trascinarsi ma anche le mie gambe non sono al pieno delle loro funzionalità. Re Giorgio non è più nemmeno all’orizzonte. Quando iniziamo la discesa, Chiara fa una brutta caduta. Nulla di grave, ma segno che la stanchezza e il caldo cominciano ad essere davvero pesanti. Solo una distrazione, ma l’attenzione è la prima che se ne va quando la testa non regge più. La affianco e corriamo il tratto fino all’inizio della mulattiera. Di fontanelle, abbeveratoi, ristori neanche l’ombra. Sappiamo che ci aspettano in cima, nella piccola piazzetta di Montevecchia-alta. Ma è ancora lontana. Le coppie che sono insieme a noi non stanno certo di meglio, anche se qualcuno riesce  a parlare in continuo. Si sale e i piedi bagnati nell’attraversamento del torrente prima dell’inizio della salita cominciano a scivolare nelle scarpe fradice. Male. Segno che le vesciche stanno per arrivare. Saliamo a testa bassa. Riprovo a distrarci guardando il panorama mozzafiato sulla Brianza che ci osserva dal basso, ma è tutto inutile. Troppo caldo e troppa stanchezza per riuscire a godersi il resto. E’ una via crucis. Ma come tutto, prima o poi finisce. Si cominciano a intravedere da lontano i primi spettatori seduti sui muretti, poi si sente il vociare del ristoro e ci siamo. Facciamo una doccia completa con bottigliette e canna dell’acqua. Acqua ghiacciata, ma quanto mai miracolosa. Mi manca quasi il fiato, ma non abbiamo tempo per rifiatare. Riparto davanti per l’ultimo strappetto verso il Santuario. Ancora gradini. Lo scorso anno non c’erano stati. Di correre non se ne parla. Chiara prova a rimanermi attaccata e cerco di non distaccarmi troppo. Quando il compagno è stanco è importante non aumentare il divario per non farlo sentire in caduta libera. Raggiungiamo la vetta e mentre mi giro per aspettare che Chiara passi davanti per la discesa vedo Anna e Davide avvicinarsi. La salita ci ha mangiato tutto il vantaggio che avevamo. Ma il pezzo forte di Chiara deve ancora arrivare.

Ha le unghie dei piedi ormai andate e fatica a correre spingendo in discesa, ma va. Io la seguo a ruota, con i piedi che scivolano dentro le scarpe bagnate ormai larghe e senza presa. Fanno male ogni volta che toccano in punta. La strada è ripida, prima asfaltata e poi sterrata. Ma è l’ultimo tratto. Gli ultimi quattro chilometri. Raggiungiamo presto i piedi della collina e ad attenderci ci sono i nostri cari amici: asfalto, salita e l’amato sole. I muscoli delle gambe sono ormai svuotati: salita e discesa sono stati letali. Ma bisogna andare avanti. Dò il cambio a Chiara e fino alla fine divento nuovamente la locomotiva. La schiena però comincia a dare segni di cedimento. La disabitudine ai chilometri. Entriamo nell’ultimo tratto di bosco che lo scorso anno era stato tanto fabiesco e rilassante. Non c’è più nemmeno l’aria fresca che mi ricordavo. Tutto secco, polveroso, afoso. Passiamo alcune coppie che ci stanno davanti, qualcuna ormai allo stremo, qualcuno dolorante a terra per i crampi. I chilometri troppo veloci di inizio gara si pagano adesso. Spingo più che posso senza perdere Chiara che mi segue come trascinata da una corda invisibile. Su e giù ascoltando in lontananza il rumore della strada che si avvicina. L’ultimo guado e poi gli ultimi mille metri.

Mi getto nell’acqua che arriva quasi al ginocchio come fosse un’oasi nel deserto. Le gambe hanno un sussulto, ma contemporaneamente le calze mi si riempiono di sabbietta. Fastidio. Ultime curve. Il guado impegnativo di un anno fa è quasi a secco. Risaliamo la riva come se stessimo scalando una cima. Ma ci siamo, insieme. Manca l’ultimo sentiero prima del centro sportivo, un ultimo tratto di ombra prima del sentiero ghiaioso che segna la fine dei giochi. Il cambio di passo è repentino. Le ultime forze residue e il sole che sembra incitarci insieme al pubblico che assiepa l’arrivo. Ultima curva. Un tappeto rosso ci invita al gonfiabile dove ci attendono fotografi e bambini con già in mano le medaglie per il nostro collo. Allungo la mano all’indietro come per il passaggio del testimone in staffetta, Chiara l’afferra e mi affianca per gli ultimi cento metri insieme. Proviamo a sorridere credo. Poi è finita. Un bacio di ringraziamento, un abbraccio e ci sdraiamo a terra, spostandoci per lasciare la scena a chi sta poco più dietro. Il cronometro segna 3h 01’ 05”. Una maratona.

Andrea Galbiati ci viene incontro subito. Un grande. E’ lui la mente che sta dietro a questa avventura. Lui e tutti i numerosi volontari del Monza Marathon Team che non ci hanno mai fatto mancare un saluto, attenzione, sostegno, incitamento durante tutto il percorso. L'altra faccia della gara, quella più nascosta, quella che che non si trova nei risultati. In tanti avrebbero da imparare. Ci chiede com’è andata e riesco solo a dire “una mazzata”. Credo che le nostre facce parlino da sole. Anna e Davide arrivano poco dopo, ma non so quanto distanti. Ci ritroviamo a terra per i reciproci complimenti. Arrivare è stato comunque un successo. Ed esserci stati è stata una grande, faticosa avventura.

Alla fine saliamo sul podio. A sorpresa davanti sia ad Anna-e-Davide (di soli 26”) che a Re Giorgio-e-Carlin (44”). Ma sul terzo gradino del podio (18° assoluti su 190 squadre, nda), che però abbiamo sudato forse ancor più del primo della passata edizione. Come previsto, senza intoppi, Bottura e Iozzia hanno fatto il vuoto ed a seguire, quasi in silenzio, si è infilata tra di noi la coppia Di Gregorio-Bossi. I complimenti vanno a tutti, è stata una grande gara. E complimenti doppi ancora a Re Giorgio che, parlando del podio perso per uno stupido errore ma che avrebbero meritato, ha semplicemente detto “per vincere non bisogna commettere errori… e sbagliare strada è un errore”. Campioni si nasce.