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Maratona di Roma

Dura. Il primo aggettivo che mi viene in mente. Dura come le gambe. Dura come i sanpietrini. Dura come la vita. Oggi come mai sento la maratona come parafrasi della vita. Mi sono guardato intorno e niente di più assomiglia a quei quarantaduechilometri e centonovantacinque metri come la vita. In tutto. Nella gioia, nell'attesa, nella voglia di vivere. Nei momenti difficili, nelle crisi che sai sempre che arriveranno. E quando ci sei dentro pensi di non uscirne, che è meglio spegnere tutto. Ma vai avanti lo stesso, stringi i denti, guardi avanti, giorno dopo giorno. Chilometro dopo chilometro. Passo dopo passo. E vedi che per tutti è come per te. E quando qualcuno è in crisi c'è sempre qualcun altro che è pronto a tendergli una mano, consapevole che poco dopo potrebbe essere il suo di turno. Lacrime, sudore, sguardi, sorrisi e urla. L'importante non è arrivare prima o dopo, l'importante è farcela. L'importante è sentirsi ancora una volta vivi. L'importante è arrivare a bere il prossimo sorso d'acqua per non crollare. L'importante è provarci ancora. La mia era solo una stupida corsa, ma per qualcuno è vita vera... forza nonna, forza Danny! Non mollate. Mai.

In viaggio verso Roma
Siamo partiti presto questa volta. Lasciamo Gessate Beach alle 9.15 di venerdi mattina mentre ci si prospetta un weekend di sole e turismo. Ma Roma è lontana, almeno sei-ore-non-stop di auto. Ma mi preoccupa più il ritorno che l'andata. Il viaggio è tranquillo, con mamma papà e Sary. E' tanto che non viaggiamo insieme. E poi a destinazione ci raggiungerà anche mio fratello. Sembra di tornare indietro nel tempo. L'autostrada scorre veloce tra chiacchere, il singolo nuovo di Vasco alla radio, letture, pisolini. Quasi seicento chilometri in poco più di sette ore comprese le soste. Ci addentriamo nella capitale che è già tardo pomeriggio, venerdi pomeriggio. Appena abbandonata la tangenziale per Piazza del Popolo (dove alloggeremo) il caos si impadronisce del mondo. Macchine ovunque, clacson, scooter, sensi unici. Giriamo a vuoto per un'ora per riuscire ad arrivare finalmente al parcheggio di Villa Borghese dove abbandonare l'auto e muoverci a piedi. Con i bagagli certo, ma meglio che in macchina. All'alba delle 18 passate riusciamo a sistemarci nelle camere, stremati più per l'ora passata a Roma che per il precedente viaggio. L'idea è di andare subito all'EUR, al Palazzo Congressi, per recuperare pettorale e pacco gara in modo che il giorno dopo possa essere dedicato al relàcs. Sary alla mano ci sorbiamo le quattordici fermate di Metro e il chilometro che ci divide dal palazzo e alle 19.30 varchiamo la porta del palazzo. Peccato che l'unico stand nel quale non c'è più nessuno è proprio quello dove noi dobbiamo ritirare il materiale. Guardo l'orario di chiusura e manca ancora mezz'ora buona, ma... siamo a Roma. Torniamo in fretta in centro dove mamma-papà-fratello ci aspettano per mangiare. Ristorantino di fianco all'albergo, ottima cena, giro in centro per digerire e poi a riposarsi. Viaggio e "corsa" all'EUR si fanno sentire. Per non dimenticare la contrattura al polpaccio e l'infiammazione al tendine. Un po' di ghiaccio e via...
L'alzata del giorno dopo è in tutta tranquillità. Colazione, doccia, toelettatura alla criniera. Per la Maratona si deve essere in ordine. Poi si riprende la via dell'EUR e con nostra sorpresa appena giunti al palazzo un fiume di gente si srotola sul tappeto rosso d'entrata in centinaia di metri di coda. Passiamo da un'entrata secondaria e andiamo al nostro stand. Eh, LaCupola! Fortunatamente i contrattempi sembrano finiti e riusciamo anche a goderci un giro tra gli stand con qualche foto al muro delle presenze (dove ogni atleta può lasciare la propria firma) e con Sanpietrino, la mascotte. Riprendiamo la via del centro come la sera precedente, ma questa volta per pranzare: un bel piatto di bucatini all'amatriciana rischiarano la giornata. La stanchezza comunque si fa sentire, un giro al Colosseo veloce e poi un po' di sole sul prato. Roma è invasa da maratoneti, scolaresche in gita, stranieri in visita e stranieri del rugby. A metà pomeriggio incontriamo i cugini romani di Sary e con loro ripercorriamo le strade del centro per l'ennesima volta mentre le gambe cominciano a protestare, consce del fatto che il giorno della maratona non è ancora giunto. Solo, ritorno verso la nostra dimora romana e le faccio rilassare con ghiaccio e gel, l'indomani avrò bisogno di loro.

La Maratona di Roma
La sveglia suona alle 6.15 mentre la tensione non si è ancora placata dal giorno precedente. C'è sempre la voglia di fare, ma è sempre presente anche l'incognita del risultato. Si scende per la colazione mentre la tuta nasconde già la divisa ufficiale con pettorae incorporato. Pane marmellata succo caffè, poi verso la metropolitana e il Circo Massimo dove l'entrata alle gabbie del Colosseo ci aspetta. Sary e mamma mi accompagnano: per loro una più rilassante 4 km in compagnia per le vie del centro romano. Durante il tragitto si uniscono a noi tanti altri atleti-mattutini, italiani, danesi, svedesi, scozzesi, tedeschi... ma lo spettacolo vero e proprio è all'uscita della metropolitana: sedicimila sono gli iscritti, ma tra accompagnatori e partecipanti alla Fun Run il mare di gente a cui ci uniamo si perde a vista d'occhio. Tolgo la tuta, consegno la borsa ai depositi, una corsa in ufficio e mi accodo nel corridoio della mia gabbia all'ombra del Colosseo, come un esercito di gladiatori pronti alla battaglia. Sono solo questa volta, solo in mezzo ad altri come me. Cerco i pacemaker delle quattro-ore con i palloncini fucsia che diventeranno i mie compagni. Il gruppo è numeroso. Sgranocchio una barretta energetica e bevo qualche sale, non troppo per non fare lamentare poi la vescica e perdere la mia carovana. Dall'alto migliaia di sguardi dalle terrazze che circondano la strada ci osservano e ci incitano.
Pochi minuti al via. Lo schermo gigante inquadra i maestri keniani, mentre le note di Rocky danno il via alle danze. Una fiumana di gente inonda le strade di Roma, tutta all'unisono, tutta allo stesso ritmo, tutta verso lo stesso obiettivo. Non mi preoccupo del cronometro dato che il tempo mi verrà dato dai miei compagni e cerco di svuotare la mente in vista dei momenti più difficili. Mi godo il panorama che come già a Milano offre subito uno spettacolo dai primi passi: i Fori, l'Altare della Patria, il Circo Massimo... poi via verso il Tevere. Il passo a 5'30" minuti-al-chilometro è più che buono e sufficiente per l'obiettivo delle quattro ore. Da Milano ho imparato a non andare a sensazione e a dosare le energie, soprattutto all'inizio.
Passiamo in zone che non conosco, ma tra i tanti c'è sempre qualche cicerone che ci dice dove ci troviamo: prima Castel Sant'Angelo sfiorando il Vaticano in festa per la domenica delle Palme e ci inoltriamo in quartieri popolari. Per le strade c'è tifo, si, ma pensavo molto di meglio rispetto ai racconti. Tanti stranieri, tante bandiere che sventolano, tanti modi di incitare che cambiano da cultura a cultura. Dopo i primi 10 km incontro il primo retro-runner e ci scambiamo qualche battuta faccia a faccia: mi sta simpatico, ha la bandana di Vasco. Dopo i 15 km la stanchezza comincia a fuoriuscire... il ritmo è costante, ma la fatica mentale di correre in gruppo e mantenere le posizioni si fa sentire. Primi bicchieri rinfrescanti, prime spugne per il viso: per fortuna la giornata è nuvolosa e i 20 gradi previsti in settimana non si sentono.
Proseguiamo zigzagando sul Tevere verso l'Olimpico: le strade si allargano, la gente che ci accompagna si dirada e usciamo in periferia. Come Milano. Alla mezza spacchiamo l'ora: 1:59:00. Niente male se nella seconda parte non perdiamo ritmo. Intanto il gruppo comincia a diradarsi. Sull'Olipica alla prima vera salita i chilometri iniziano a farsi sentire e il vento contrario certo non aiuta. Le macchine scorrono sulla carreggiata al nostro fianco e quando la fila si blocca per la nostra corsa qualcuno se la prende con i vigili, ma (nota positiva) mai con gli atleti.
Il chilometro 25 mi sembra un miraggio: sulla strada cominciano saliscendi continui e la stanchezza diventa reale. Sono tentato di addentare il glikogel che ho in tasca, ma quello l'ho portato per le crisi vere. Desisto e stringo i denti. Conto i chilometri che ci separano ogni volta prima dal ristoro e poi dallo spugnaggio (alternati ogni 2500 metri) cercando di impegnare la mente, mantenere il passo e combattere contro i primi crampi che si diffondono. Lungo la strada le termocoperte dei ritirati aumentano ad ogni chilometro, i punti di soccorso hanno sempre più da fare e la distanze reciproche aumentano. Stiamo tornando verso il centro dove ci aspetta il pubblico più numeroso, l'aiuto estremo per la mente.
Tra i ciceroni si parla già dell'incombenza di Piazza Navona, ma mente e gambe non ce la fanno: proprio sotto lo stendardo del 32simo chilometro mi stacco dal gruppo rallentando il passo, certo che l'andatura dei 5'30" non mi permetterebbe di arrivare fino alla fine. Forse l'allenamento interrotto per tre infortuni, forse il percorso duro della capitale, forse solo una questione di mente, ma il fisico non ce la fa. Ormai la mia corsa è solo la mia, senza compagni di marcia e con il solo obiettivo dell'arrivo. Ripenso alle due settimane precedenti in cui ero incerto se ce l'avessi potuta fare, ma ormai ci sono e in un modo o l'altro devo arrivare. Non ho ancora rivisto Sary, mamma-papà-fratello ma tra poco arriveranno anche loro appoggiati a qualche transenna.
Con le gambe pesanti avanzo passo dopo passo sfiorando l'Ara Pacis e le prime scolaresche sedute sui muretti. Poi è la volta di Piazza Navona. Credo ci siano urla, grida, sorrisi, applausi, ma ho la mente troppo offuscata dalla fatica per percepirne appieno la densità. Mi accorgo appena di superare un ragazzo che corre scalzo e che più sfinito di me sta già camminando. Ma non ci si deve fermare, il duro sarebbe poi ripartire. Mantengo il passo in attesa dell'acqua al prossimo ristoro. Mentre ritorno verso l'Altare della Patria sento lontano gridare il mio nome e vedo il Mio pubblico che mi incita, che mi sorride, che mi fotografa. Faccio una smorfia e una linguaccia per nascondere la sofferenza e chiedo acqua, ma non posso fermarmi e svolto l'angolo per il miraggio del ristoro al 35simo chilometro che si avvicina. Quasi mi ubriaco e mi incammino verso via del Corso, guardando fisso davanti a me l'obelisco di Piazza del Popolo. Lontanto. E piccolo. Seguo la mezzeria come per non perdere la strada mentre l'acqua comincia a diffondere un po' di benessere. Ma il passo resta comunque pesante. Il pubblico che mi aspettavo decisamente più caloroso guarda ma distaccato, forse più disturbato che coinvolto.
Al giro di boa a Piazza del Popolo so che è quasi fatta: basta tornare indietro e poi c'è lo strappo finale. Ma non ho fatto i conti con i "sanpietrini". La regolarità della strada che c'era stata fino ad ora è sostituita da un susseguirsi di sali-scendi e buche causate dal logorìo delle pietre che ad ogni passo stortano il piede che, suo malgrado, fa stridere i muscoli di coscia e polpaccio tra crampi e fitte. Sento gli occhi che si inumidicono anche quando pensavo di non avere più liquidi in corpo, ma non mollo. Mai. Non sarei interista, eh! Il serpentone di vie strette passa da Piazza di Spagna e ridiscende ancora per l'ultima volta verso l'Altare della Patria dove i Miei ci sono ancora, in attesa. La discesa fortunatamente alleggerisce la corsa mentre li risorpasso e gli sorrido. Incontro tanti che come me non ce la fanno e si arrendono camminando, li supero e mi faccio forza mentre il 40esimo chilometro ci ri-immette lungo il Circo Massimo. La strada già percorsa quaranta chilometri prima sembra essere stata sostituita da una montagna: guardo il cronometro e in condizioni normali so che riuscirei a stare sotto le quattro ore. Ma non oggi. Non in queste condizioni. Mantengo il passo rallentato dalla salita ma non per questo meno faticoso e mi aggrappo alle ultime forze che rimangono e a quei pochi che sorridendo ci accompagnano in fondo. Curvo a sinistra: l'Arco di Costantino prima e il Colosseo dopo si aprono all'ultimo chilometro. Un passo alla volta, piano piano da dietro il Colosseo spunta il traguardo dopo l'ennesima salita che sembra non finire mai. Il cronometro è ben oltre le quattro ore, ma ce l'ho fatta: 4 ore 9 minuti e 45 secondi. Pensavo peggio.
Passo il traguardo, mi vestono con la coperta termica. Spendo sorrisi per chi (volontario) mi assiste e ringrazio. Passo il chip, ritiro la medaglia, prendo il pacco gara e divoro una mela, ritiro la mia sacca al deposito e mi sposto verso l'uscita dove mi stanno apsettando. Mi prendo solo qualche minuto per riposarmi sdraiato per terra per fare riprendere le gambe. E mi accorgo che è finita. Ancora una volta. Ed ora che ci ripenso la ritrovo ancora una cosa fantastica. Non so come spiegarlo, ma è un'esperienza unica. Non ci sono gare che valgono una maratona. Non ci sono sforzi che valgono una maratona. Non ci sono emozioni-sportive che valgono la tua maratona.
Esco dal recinto e raggiungo Sary mamma-papà-fratello e Roberta che si è unita a loro. Anche loro hanno una storia da raccontare, ma questa è la mia. Mentre loro vanno al loro meritato pranzo io e Sary procediamo verso l'albergo, per l'ultima volta, ancora insieme. Una doccia quasi-rigenerante e poi le valige. Si ritorna verso casa. Le gambe intanto cominciano i loro lamenti-post-gara. Sarà così per qualche giorno.
In macchina ripartiamo in direzione Firenze-Milano ripercorrendo qualche via già vissuta in quella mattina. Il sole cala e il giorno si spegne. Un bel weekend, di quelli da ricordare. Rimane solo qualche lacrima lungo la strada, ma non centrano con questa storia. Quella è la vita.