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Lo strano mondo dell'Ultra

In un periodo in cui la vera corsa rimane (per me) ancora un miraggio, mi diletto, oltre che nel pedalare, anche nel leggere, osservare e scoprire. E nel mondo del web (Facebook soprattutto, la nicchia dei runner scriventi) sto seguendo parecchie diatribe e misteri, di cui non ero a conoscenza. Parlo del mondo dell’ultra. Una cosa per pochi, di cui s-parlano in tanti.

Non credevo ci fosse un seguito così diffuso. Soprattutto non conoscevo molti dei nomi di cui ho letto. Nomi (e cognomi) famosi nell’ambiente, ma completamente estranei al resto del mondo del running. Un piccolo universo. Problematiche che, chi frequenta da qualche tempo il mondo dell’ultramaratona, probabilmente conosce o almeno ne ha sentito parlare. 

Per me il Passatore o la Nove Colli (le due classiche italiane, la seconda derivata dal ciclismo) sono sfide che rimangono nell’olimpo del running. Imprese che solo pochi possono affrontare. Impavidi super-runner che cercano di oltrepassare il limite del potere umano. Ho negli occhi le imprese di Re Giorgo Calcaterra o dell’immenso Ivan Cudin. Personaggi che hanno dimostrato con i fatti quello che sono stati, senza tante parole. Vittorie indiscutibili. Per poi ritornare alla loro quotidianità, fatta non di riflettori puntati, ma di sacrificio. 

Ma leggendo articoli e post apparsi qua e là, ho scoperto un mondo diverso, fatto di approssimazione, invidie, apparenza, leggerezza. Mi ha fatto tristezza. Perché per come la vedo io il running è tutta un’altra cosa. Io lo vivo e l’ho vissuto in prima persona, senza mai superare il (mio) limite della maratona. Un muro invalicabile che non ho mai voluto oltrepassare se non con la fantasia. O con le due ruote (qui la mia unica esperienza al Passatore). 

Che a noi runner della domenica piacesse sfidarci continuamente non è certo una novità. Non per essere i numeri uno al mondo, ma anche solo per abbattere le nostre barriere. Sul tempo o sulla distanza. È uno stimolo importante, la vera motivazione soprattutto per chi inizia a correre costantemente. Migliorare, migliorarsi e puntare sempre più in alto, fino a raggiungere il proprio limite.

Ma per molti il non-raggiungimento di quel limite, si è trasformato in una demotivazione, che li ha portati ad un cambio di strada. Meglio più chilometri e meno (diversa) fatica. Non mi piace la leggerezza con cui tanti si avvicinano al mondo ultra, ma ognuno è libero di vivere la corsa come meglio crede. Sempre che però lo si viva secondo l’etica sportiva e le regole. Scritte e non scritte. 

Andando sul sito della NADO Italia (l’organizzazione nazionale antidoping, derivazione funzionale della Agenzia Mondiale Antidoping, la WADA), si vedono sempre più spesso sospensioni e squalifiche di ultrarunner per doping. Nomi sconosciuti e insipidi ai più, ma ben radicato nel mondo ultra (ne avevo già parlato qui). Doping casalingo, amatoriale. Che mi chiedo quale vero valore (di risultati) possa veramente dare. Ma che sta diventando un fenomeno più che allargato. Si perde di vista la bellezza della corsa, dell’atletica, del sacrificio per qualcosa che non ha senso. Per un secondo di notorietà. Per una manciata di like. Dimenticando anche casi eclatanti di professionisti già fermati anni prima, che proprio in questo mondo (malato) cercano di rilanciarsi, anche grazie ad una non pacata dose di ignoranza. 

Al loro fianco, poi, i maniaci dello strappetto. Quel piccolo cancro di non-atleti che invece si destreggia tra corsa e passaggi in auto (o bici o moto) pur di portare a termine un’impresa non alla loro portata, che non guarda in faccia agli avversari ma punta solo a lasciarseli alle spalle, premendo sull’acceleratore. 

In tutto questo le manifestazioni diventano involontariamente (anche) vittime. Non ci sarebbe bisogno di controlli o strane regolamentazioni se il mondo funzionasse secondo utopia. Ma purtroppo non è così. Per combattere il male dello sport non bastano controlli a sorpresa (sul percorso e a gara finita), come non bastano restrizioni e regolamenti sempre più puntigliosi. Servirebbe un lavaggio dei cervelli. L’insegnamento che lo sport va vissuto in una maniera diversa.

Per me non ha senso vedere migliaia di persone al via per poi non essere in grado di controllarle (viste le già grandi difficoltà di essere vigili lungo tutto il percorso). Come non ha senso permettere il pressappochismo per parlare di qualche numero in più. Non è vero che tutto sia alla portata di tutti. Per correre un’ultramaratona bisogna essere ultrarunner. E non basta fare qualche chilometro in più per diventarlo. Bisogna correre.