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Non dirmi che hai paura

Nei giorni in cui si fa fatica, in cui l'obiettivo sembra sempre più lontano, quando le forze calano durante una ripetuta e la voglia di mollare sembra la via più facile ho pensato più volte a Samia. Samia Yusuf Omar. Ai più non dirà nulla come nome. Io l'ho conosciuta questa estate, nel mio #runningsummertour. Regalo dell'amico Franco. Uno dei libri più belli che abbia letto.

Un po' perchè parla di corsa. Ma la corsa è solo una scusa. O forse perchè fa capire quanto la corsa possa essere vita, più di quanto ci si possa aspettare. Speranza. Fuga. Riscatto. Nuovo inizio. Un libro che fa riflettere su tante cose. Ma un libro che soprattutto ti mette di fronte alla realtà. Senza giudizi. Senza preconcetti. Semplicemente la racconta e la mostra tanto lontana dalle nostre piste di atletica, dalle nostre ciclabili, dalle nostre emozioni nelle corse della domenica mattina.

Quello che lo sport non dovrebbe essere. Samia che rincorre i suoi sogni in una Mogadiscio devastata dalla guerra, che combatte e si ribella contro il potere integralista grazie alla corsa. Samia che cresce sognando le Olimpiadi, allenandosi, sacrificandosi, rincorrendo i suoi desideri. Samia che racconta il suo viaggio per riuscire a realizzarli. Un viaggio verso l'Europa uguale a quello di altri migliaia di profughi. Ma un viaggio diverso da quello raccontato dai giornali. Un viaggio che non è soltanto un'attraversata del Mediterraneo su un barcone. Una realtà ben diversa da quella mostrata in televisione da buonisti e benpensanti, ma che nemmeno lei conosce prima di viverla. Come non sa come (e cosa) sia il mondo fuori dalla Somalia. Samia che si ritrova catapultata sul tartan rosso delle Olimpiadi di Pechino del 2008 al cospetto dei suoi miti, Veronica Campbell-Brown e Mo Farah (il video della sua corsa). Una maglia troppo grande, pinocchietti e una fascia portafortuna in testa. Samia che corre come sa fare, illusa forse dai suoi stessi sogni. Corsa e vita che si intrecciano. Come per qualsiasi podista. Stessi pensieri, stesse parole, stesse emozioni, stesse delusioni. Stesse speranze. Ma in mondi completamente diversi.

"Ho 8 anni e mi piace correre. Corro per strada, corro con le vecchie scarpe che hanno usato anche i miei fratelli, corro nel vecchio stadio anche se è quasi distrutto, corro dappertutto ma sulla spiaggia no, perché lì sparano. Ho 10 anni e ho appena vinto una gara di 7 km a Mogadiscio. Ho battuto anche i maschi. Sopra il mio materasso, in camera, ho la foto di Mo Farah. Correre è il mio sogno. Mio papà mi ha regalato delle scarpe nuove e una fascia bianca. Ho 15 anni e continuo a correre. Mi alleno di notte, mi alleno di nascosto, perché c’è la guerra civile qui in Somalia e perché sono una ragazza in un paese che sta diventando fondamentalista. I 100 m e i 200 m sono la mia passione. Vinco spesso, ma voglio di più, voglio correre meglio, più velocemente. Ho 17 anni e il comitato olimpico nazionale mi ha chiesto di andare a Pechino e correre per la Somalia. Sono senza parole, sono felice. Non sono mai salita su un aereo, non sono mai stata in un albergo. Correrò anche per tutte le altre donne somale. Arrivo ultima nella mia batteria, ma tornerò. Tornerò a Londra 2012 e lì non sarò ultima..."

Non dirmi che hai paura è un libro che un runner non può non apprezzare. Anche solo come motivazione personale. Un aiuto a capire che quella corsa a cui si tiene tanto, alla fine, non è tutto. Che la corsa è bella perchè aiuta a vivere meglio. A vivere con piccoli sogni. A vivere nel modo giusto. A non arrendersi. A guardare sempre avanti. Che la corsa può (e deve) diventare il modo per stare bene. Da soli. Insieme. Ma anche che la corsa può essere molto di più. Che vivere da runner è diverso. E' meglio.