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Corritrieste

Ci sono giorni che sono fatti per correre. Giorni che quando ti alzi sai già dove andare. La divisa pronta nella borsa, la testa già sotto l'arco di partenza, le gambe calde al punto giusto. E' tutta una questione di feeling. Programmare gli allenamenti, scegliere la gara giusta. Sudare ogni giorno per arrivare ad essere pronti quando lo sparo echeggia. Sai già come andrà, anche se te lo nascondi. Anche se menti a te stesso per paura che comunque qualcosa possa andare storto. O forse solo per godere del momento in quell'attimo, in quel decimo di secondo in cui tagli il traguardo davvero. Diecimilametri solo per quell'istante in cui il tempo si ferma. Non un secondo prima e nemmeno uno dopo. Chilometri e mesi di allenamento per una frazione che rimarrà sospesa fino al prossimo traguardo. Basta aspettare il momento giusto. E corrergli incontro.


CorriTrieste.

Che fosse un giorno speciale lo sapevo già settimane fa, quando avevo scelto la Corritrieste tra altre 10 Km di questo periodo. Sono andato a colpo sicuro, senza un perchè, senza sapere quale fosse la mano che aveva guidato la scelta. Ma sapendo che era quella giusta. E che fosse il giorno giusto lo sentivo in questi giorni mentre consumavo la suola delle Jazz in allenamento. Ogni volta qualche secondo in meno, ogni volta la consapevolezza di star lavorando bene. Tre mesi partendo dallo zero assoluto. Il giorno giusto. Aprire la finestra della camera e vedere il cielo nuvoloso, il sole coperto, sentire l'aria fresca del mattino. Sentire il profumo di quel giorno. Sognato, aspettato, sudato, guadagnato. I miei veri obiettivi sono altri e manca ancora tanto lavoro per raggiungerli. Ma per arrivare alla fine di una maratona prima si devono correre tutti gli altri chilometri. Meglio se nei tempi previsti. Ed oggi è stata una verifica importante, forse la più importante, perchè è stato quel passo in più che ancora non avevo fatto.

Ero fiducioso per le sensazioni provate negli ultimi giorni ed altra fiducia l'ho immagazzinata sentendo l'aria fresca sulla pelle durante il riscaldamento lungo la via pedonale che percorre il porto. Dopo tanti giorni di caldo trovare una mattinata di inizio primavera senza sole e senza la classica bora triestina è stato quasi un miracolo. Ma nello sport i miracoli non esistono. Esistono solo i risultati. Ho percorso avanti e indietro il primo chilometro di tracciato fino all'entrata del porto vecchio. Le gambe hanno tremato, ma più per la tensione che per stanchezza o pesantezza. Poche le presenze rispetto a quanto sono abituato in terra lombarda, ma un buon parterre che non avrebbe avuto nulla da invidiare a gare ben più blasonate. Top e atleti giovani da personali sotto i ventinove. Poi i vecchietti, come me. Ma se c'è una cosa che non faccio mai è partire battuto in partenza. Si può perdere, ma prima si prova a lottare per vincere.


CorriTrieste. Grazie a Promorun per la gentile concessione sull'utilizzo delle foto.

Al via pur cercando di tenere un po' il freno tirato e non volendo esagerare mi trovo a ridosso del gruppo di testa. Quattro africani, che hanno preso il largo quasi subito, e i top-triestini. Ma le gambe vanno. Sento il ritmo vibrare nei muscoli e lascio che siano loro a decidere dove e come andare. Il breve tratto davanti a Piazza Unità d'Italia, l'arrivo della Bavisela, ci porta all'entrata del porto vecchio. Percorso quasi completamente dritto, con qualche larga curva che non tradisce il ritmo. L'altimetria è praticamente nulla e l'unico intralcio diventa la tipologia del terreno che si alterna tra tratti in asfalto, lastricato dissestato e salti di binari dei cargo portuali. Praticamente un invito a pensare solo alla corsa. L'idea di correre nella zona di porto abbandonata e chiusa a qualsiasi tipologia di traffico è, da un certo punto di vista, perfetta. Nessun intralcio per chi corre, nessun intralcio per chi guida. Certo, manca una cornice di pubblico importante per buona parte di gara, ma la si ritrova in zona partenza/arrivo dovendo correre il percorso di cinque chilometri due volte. Una scelta che non mi è mai piaciuta molto, ma che invece ho apprezzato oggi.

Il primo chilometro è uno sparo, 3' 32". Ma le gambe sembrano non accorgersene. In ogni caso sono 13" guadagnati. Mi accodo al piccolo gruppetto che mi precede capitanato dalla prima donna e mi adatto al loro passo. Non resta che vedere cosa possano riservare i chilometri a seguire. Certo il respiro non è dei più rilassati. Entriamo nel porto vecchio su un lungo rettilineo che sembra non finire mai. I bip dei gps dei miei compegni-improvvisati preannunciano di qualche secondo il mio intermedio e il calo è immediato, 3' 45". Ho lasciato loro fare il passo e decido di prendere in mano io la situazione passando davanti a tirare. Ma non dura molto. La reazione degli altri è istantanea. Probabilmente non credevano di aver rallentato così tanto e in men che non si dica mi prendono qualche metro. A saperlo, sarei rimasto al mio posto senza farmi notare. A metà tra il secondo e il terzo chilometro incrociamo il primo giro di boa. Un po' stretto per i miei gusti, visto che avevamo a disposizione solo due metri più avanti una comodissima rotonda che avrebbe mantenuto il ritmo senza spezzarlo. Ma il giro di boa mi dà anche la possibilità di contare le posizioni di testa. Dodicesimo assoluto. Non male. E il ritmo riprende. 3' 40" al terzo e quarto chilometro. E visto che ormai sono caldo e che la posizioni sono quasi ordinate provo a manterlo. Poco prima di ri-uscire dal porto vecchio veniamo inondati dal suono delle sirere di due ambulanze che ci vengono incontro. Alle nostre spalle è successo qualcosa, ma non sappiamo cosa. La fiumana di gente che è ancora nel primo tratto di andata segue sbigottita.

Curviamo verso il lungo mare e incontro Chiara per la prima volta mentre si cimenta in un reportage fotografico e prova ad incitarrmi con l'enfasi di Marina Massironi durante la presentazione de i bulgari. Ma apprezzo il gesto e soprattutto per qualche metro mi fa dimenticare la fatica. E' la prima volta che non corriamo insieme nella stessa gara. Anche questo forse era segno della giornata. Giro di boa davanti al gonfiabile in zona arrivo-partenza e qualche timido applauso del pubblico coperto dal microfono dello speaker. Nel secondo giro chi ne ha ancora allunga il passo. Qualche posizione si scambia, qualcuno che sale e qualcuno che scende. Corro solo per la maggior parte del tempo e cerco di ascoltare alle mie spalle senza mai voltarmi. Fino al settimo chilometro gli intermedi peggiorano di chilometro in chilometro. Tutti entro limiti accettabili, ma fino al terzo ed ultimo giro di boa non ho quello scatto mentale per mantenere il ritmo fino alla fine. Non faccio calcoli per il tempo finale che vorrei, ma so che è alla portata.

La temperatura è ideale. Il sudore mi cola sugli occhi, ma il fresco su gambe e braccia è manna per lo spirito. Mi perdo un attimo nell'osservare i cantieri abbandonati e cadenti del vecchio porto, un ambiente tanto strano per una corsa ma affascinante al tempo stesso. Siamo soli, ma sembra che tutto sia solo fermo in attesa che anche l'ultimo del gruppo sia passato per poter riprendere la normalità. I passi che mi sorpassano mi ributtano in gara, ma non sufficientemente in forze per poterli seguire. Ma gli ultimi chilometri fatti sotto ritmo mi hanno dato ossigeno e gambe. All'ottavo chilometro ritrovo il passo e recupero metri sui primi che ho davanti. Un piccolo gruppetto a tre che mi aveva sorpassato qualche chilometro prima. Si sfilacciano e recupero una posizione. Poi un'altra poco prima del suono del gps all'ultimo chilometro. Come se la tromba avesse suonato la carica. Ho gambe e fiato. Taglio le curve seguendo una traiettoria ideale immaginaria. Davanto ho un solo avversario da raggiungere. Aumento il ritmo. Il porto vecchio è alle spalle e davanti solo due curve prima del rettilineo finale tra le uniche due ali di pubblico del percorso. Recupero metri e all'ultima curva mi metto in scia. Trecento metri all'arrivo. Allargo e lo supero prendendo qualche metro di vantaggio. Quando però vedo la sua risposta e le sue scarpe ritornarmi al fianco cambio marcia (3' 19" gli ultimi mille, nda) quasi senza accorgermene. Lo speaker annuncia il tempo di trentasei-e-quaranta per il ragazzino che mi precede di qualche secondo. So che è fatta.

Diventa tutto sordo per un istante. Quell'istante. Quel momento rincorso per dieci chilometri quando sorpasso in volo una linea bianca immaginaria davanti agli spettatori persi nei loro applausi davanti all'arrivo. Rimango sospeso in quel 36' 46" prima che scocchi il secondo successivo e ritorni proiettato nel piccolo spiazzo davanti alla scalinata di Piazza Unità. Ho il cuore in gola e il fiato rotto. Cerco un posto dove sdraiarmi e riprendere ossigeno nei polmoni. Singhiozzo e rido. Non ho ancora guardato il cronometro, ma sorrido in una smorfia di stanchezza e bisogno d'aria. Un'avversario mi viene a salutare e mi stringe la mano. Arriva Chiara che non perde l'occasione di immortalare il momento. Io guardo il cielo grigio ancora coperto di nuvole. Prima volta sotto i trentasette, primo di categoria SM40, quindicesimo assoluto. Ci sono giorni così, che sai che devono arrivare. Ci sono giorni che vanno guadagnati e sudati. Ci sono giorni che sembrano un regalo, ma sono solo il frutto della voglia di correre. Ci sono giorni come quello di oggi. Giorni fatti di settimane, di sogni e di sudore. E di un nuovo passo. Più in là.