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Cortina Skyrace, dall’inferno al paradiso

Cortina Skyrace, dall’inferno al paradiso

Ho reindossato un pettorale in una gara a tre anni di distanza dall’ultima volta. Ho partecipato a un trail dopo quattro anni. Sognando e temendo questo momento. Ma anche con la consapevolezza che la strada verso il traguardo fosse davvero quella giusta. 

Un balzo dall’inferno al paradiso. Questa è stata la mia Cortina Skyrace. Una corsa durata poco più di due ore in cui ho rivissuto gli ultimi tre anni della mia vita (non solo da runner). Tre anni in cui ho lottato per superare tutti gli ostacoli che mi si sono parati davanti all’improvviso e che troppo spesso hanno avuto la meglio, costringendomi a cambiare strada, a tornare sui miei passi, a volte a fermarmi, quasi ad arrendermi. Tre anni in cui vedevo la vetta dal basso quasi irraggiungibile, troppo lontana per pensare di poterci arrivare. Tre anni in cui il sentiero si è trasformato da strada piatta e larga in un single-track da scalare con le mani. La vera prova del nove che mi ha fatto capire, finalmente, di avercela fatta.

Dopo essere partiti da Cortina col pomeriggio che stava già diventando sera, appena abbandonata la ciclabile e arrivati all’imbocco del sentiero verso gli oltre duemila metri della Forcella Zumele ho avuto un solo pensiero: ascoltare le sensazioni. Non tanto per la paura di non farcela, quanto per capire come avrebbe reagito il mio corpo (la mia schiena). La strada si è subito impennata (la pendenza media sia in salita che in discesa è stata oltre il 10%) prima passando tra i saliscendi del bosco, per poi abbandonare il fresco degli alberi e iniziare una lunga scalata tra le rocce fino al raggiungimento del passaggio in quota. Se la prima parte è stata abbastanza corribile, la successiva si è trasformata ben presto in una lunga scalata. 

Per i successivi tre chilometri, sotto lo sguardo del Sas della Rana, le gambe hanno avuto una tregua riuscendo a correre sul sentiero che ci ha fatto circumnavigare parte del versante con un fresco passaggio su strade poderali all’interno del bosco, fino all’imbocco del tratto più duro e impegnativo, lo strappo che ci ha portati fino in cima alla forcella.
Prima un nuovo passaggio di single-track tra gli ultimi alberi, per poi sbucare su un lungo e verde prato al cospetto della montagna. Alzando lo sguardo ho solo visto una lunga infinita fila di runner procedere lenti e gobbi zigzagando sul lato della montagna in una spirale che sembrava non finire mai. Poco meno di due chilometri passati in una ventina di minuti, durante i quali i quadricipiti hanno urlato di fatica, le mani hanno lasciato le piaghe sulle gambe, il sudore ha appannato vista e occhiali, ma che ci hanno portati fino in cima, sospinti dal basso da un vento freddo e sempre più insistente fino ad attraversare il piccolo antro della forcella come saltando in una nuova dimensione. 

Il primo passo al di là del muro, che per quasi due chilometri ci ha portato alla Forcella Sonforca, sono serviti per ridare vita alle gambe prima di buttarsi a testa bassa giù dalla discesa. Le distanze che per la prima parte di gara erano comunque rimaste abbastanza ravvicinate e a vista, si sono subito allungate e ben presto sono rimasto solo. Ed è stato in quel momento che ho capito che avrei potuto finalmente tornare ad osare. Non tanto per un posto in classifica o per un crono, ma semplicemente per correre. Spingere. Crederci. Sognare. 

Anche i primi gradini naturali sul sentiero che ha attraversato il versante opposto della montagna mi hanno dato fiducia. Dalla schiena nessun sussulto nonostante i continui balzi. Le gambe, che poco a poco si sono riprese, hanno sorretto tutto il peso e dato la spinta scendendo a valle. 
I chilometri sono passati a velocità doppia. Roccia e polvere hanno lasciato spazio presto a radici e terra più morbida, hanno fatto la loro ricomparsa gli alberi come curiosi spettatori, fino ad invitarci in un lungo e verde pratone, tra le mucche al pascolo, ma senza mai dare tregua alle gambe, gonfie e dure nel tentativo di non cedere alla forza gravitazionale. Il ristoro del quindicesimo chilometro è sembrato quasi un miraggio, non tanto per la necessità di bere o mangiare, quanto per dare un attimo di pausa alla discesa, prima del lungo strappo finale. 

Cinque chilometri non stop, prima scivolando in un single-track quasi impossibile da seguire per quanto stretto e ripido, poi lungo i canali sassosi che d’inverno si trasformano in piste da sci, seguendo i tralicci di seggiovie e funivie che salgono in quota. Sentire solo fatica alle gambe e nessun problema alla schiena è stato il traguardo più grande che potessi raggiungere. 
I primi spettatori sono ritornati con le prime case di Cortina all’imbocco della ciclabile che ci ha riportati al punto di partenza. Ho salutato e ricambiato con un grande sorriso tutti quelli che ho incrociato, inconsapevoli della mia grande vittoria, ma felici di dare ogni volta un’ultima spinta d’incitamento. 
Col piano anche le mie gambe hanno iniziato a girare come sempre hanno saputo fare e mi sono goduto in solitaria il mio passaggio tra i viali del centro dove il pubblico si è fatto sentire rumoroso e festoso nonostante la mia 50ma posizione. 

È stata una gara speciale, anche grazie ai paesaggi incredibili che abbiamo attraversato e ai panorami mozzafiato di cui abbiamo potuto godere. Un grande grazie va a Runner’s World e Brooks che mi hanno dato la possibilità di esserci (qui vi rimando all’articolo sulle nuove Cascadia 16 che ho usato in gara) e di riprovarci. Forse, se non ci fosse stata l’occasione, avrei rimandato ancora l’appuntamento col pettorale.
Il grazie più grande va poi a coloro che mi hanno permesso di riprovarci. Al doc Migliorini che mi ha seguito in una via crucis durata tre anni, a Stefano che mi ha dato il consiglio più prezioso, a tutto lo staff di Rovatti Plan che in tre mesi mi ha ricostruito da zero, al prof. Massini a cui devo tutto il mio sapere sul running e a Massimo che in soli tre mesi mi ha rimesso in forma.