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53° Monza-Resegone

Coraggio e Rispetto. Mentre ancora non eravamo arrivati a Calolziocorte, erano queste le parole che mi riempivano la mente. Strade buie, dritte, lunghe, silenziose. La montagna che poco alla volta si stringe e si avvicina. Ci vuole coraggio per prendere il via. Per alcuni inconsapevolmente. Ci vuole coraggio perchè la Monza-Resegone non è una corsa qualunque. Non è una maratona in salita, come non è una semplice corsa a squadre a cronometro. E' una sfida. Con sè stessi. Ma da correre con gli altri. Per gli altri. E qui nasce il rispetto. Perchè non puoi solo pensare a te stesso. Sei una squadra e il primo pensiero deve andare ai tuoi compagni. Rispettare il loro passo, la loro preparazione, le loro sensazioni. Mescolare voglia di fare e prudenza. Insieme si deve avere il coraggio di osare, di pensare in grande, di immaginare l'arrivo alla Capanna. Coraggio che è una riga sottile, come il sentiero che taglia in due i versanti della montagna. Da una parte il coraggio di stringere i denti quando la situazione diventa critica e di andare avanti comunque. Dimostrare che il corpo può vincere sulla mente. Avanzare un passo alla volta, con le gambe che vorrebbero fermarsi, la testa che si spegne, lo stomaco che si contorce. Si unisce al rispetto per la tua squadra. Sofferenza per arrivare a tutti i costi e non deludere i tuoi compagni, non fargli perdere quella gara attesa da sattimane. Ma coraggio è anche saper dire basta, fermarsi in tempo prima del collasso. Coraggio di ritirarsi, consapevoli dei propri limiti. Rispetto di sè stessi che troppe volte si perde per sembrare invincibili. Forse la scelta più difficile di tutte quando arriva il momento di guardare i tuoi compagni negli occhi. Non vuol dire perdere. Significa solo sapere che non si può sempre vincere. Ma che c'è sempre la possibilità di riprovarci. Ci vuole ancora una volta solo coraggio. Quello di riaccetare la sfida.

Si ringraziano Podisti.net, Arturo Barbieri e Roberto Mandelli per la gentile concessione sull'utilizzo delle fotografie.

Mentre saliamo i gradini del palchetto di partenza le gambe cominciano a tremare. Si parte. Non possiamo sbagliare strada. Davanti a noi solo un lungo corridoio tra due ali di gente che applaude e incita. Flash che scattano, lo speaker legge i nostri nomi, gli amici che mi chiamano in mezzo al pubblico. Tredueuno. In un attimo siamo proiettati sui sanpietrini che ci porteranno fuori Monza nel giro di qualche minuto. A Piede Libero, come dice il nostro nome. Gianluca dovrebbe fare il passo, ma l'adrenalina è talmente tanta per le prime centinaia di metri che ci dimentichiamo qualsiasi strategia di gara. Non abbiamo ancora rotto il fiato ma abbiamo già dato una quantità inverosimile di cinque ai bambini posizionati lungo il bordo della strada. Per quanto ho potuto capire dal briefing pre-gara per me sarà una corsa al risparmio, sempre che di risparmio si possa parlare quando si tratta di maratona. E soprattutto di salita. Pier prova a dare il ritmo ma partiamo troppo forte. Io rimango fiducioso vedendo gli intermedi, ma con il senno di poi avremmo fatto bene a rallentare. Gianluca ha avuto problemi nelle settimane prima della corsa e non è al nostro livello. Ma le gambe all'inizio girano bene, l'euforia è tanta per cui ci lasciamo andare. Guadagnamo posizioni e recuperiamo tempo. Per non esagerare cerco sempre di stare arretrato rispetto ai miei compagni. I problemi avuti durante le ultime due settimane di allenamento sembrano spariti come per magia. Nessuna pesantezza alle gambe, niente stanchezza. Il ritmo attorno ai 4' 30" che prendiamo attorno a Villasanta sembra perfetto. Per me. Villasanta è anche il primo bagno di folla. Davvero tanta. Ad ogni centro di paese dove il tifo è raggruppato e rumoroso l'adrenalina fa girare le gambe più veloci quasi in automatico. I bambini fanno a gara per cercare il loro saluto personale come se fossimo le star del momento. Ma è bello vedere la soddisfazione nei loro occhi. Vale più quello che un bicchiere di sali. Intanto la sera cala, la strada sale e l'umidità fa posto ad un po' di fresco. Non piove fortunatamente. Il traffico è intenso, soprattutto quando stiamo sulla strada provinciale per Lecco. Ci teniamo a sul bordo mentre le auto sfilano tutte alla nostra sinistra. Ogni tanto Gianluca ricorda a Pier di non aumentare, ma fino al decimo chilometro rimaniamo con passo quasi costante. I problemi cominciano dopo Usmate Velate. La salita comincia a farsi sentire. Poco più di un falsopiano, ma non spiana mai. Diminuiamo il ritmo e dal retro controllo ogni tanto il passo di Gianluca che diventa un po' più pesante. Ormai è tardi per pensare a quello che si poteva fare, si può solo provare ad arrivare tutti insieme. Non essere concentrato sul mio passo mi sembra strano. Ho la mente libera. Faccio fatica, ma una fatica diversa. Le gambe che girano in maniera differente, l'appoggio in corsa che non è lo stesso. Cerco di occupare la testa guardandomi attorno per godermi la strada, il percorso, i paesi, la gente. La luna sale poco alla volta. Tra Cernusco Lombardone e Merate c'è uno stralcio di paese che si apre su Montevecchia. In alto, illuminato dalle luci, nitido e imponente il santuario che ci segue silenzioso. Vorrei quasi fermarmi appoggiato muricciolo di sassi che costeggia la strada e godermi il momento. Ma non si può. Il ritmo cala. Intorno al ventesimo chilometro siamo saliti a 5' 20" in corrispondenza dell'ultimo strappo prima della discesa di Calco. Siamo solo a metà percorso e nella mente di Gianluca cominciano ad insinuarsi i primi cedimenti di testa. Va avanti a forza, un passo dopo l'altro, ma è in chiara crisi. La discesa che potrebbe sembrare una fedele amica in realtà non lo è.  O meglio, lo sarebbe se stessimo bene di gambe, con un aumento del passo e un recupero di quanto perso in salita. Ma quando le gambe sono già affaticate e la testa comincia ad abbandonarti è solo un supplizio in più, non dando quel riposo di cui il fisico ha bisogno. La subisco anche io che fino a quel momento non avevo avuto problemi. Affianco Gianluca e cerco di mantenere il ritmo il più costante possibile. Siamo in silenzio da molti chilometri ormai. Pier riprende fiato dietro di noi dopo una pausa forzata. La notte è scesa, i paesi sono lontani dalla strada. Dalle retrovie le squadre più veloci cominciano a riprenderci. Intorno ad Airuno ho delle sensazioni strane. Leggeri sfarfallii agli occhi, le gambe secche e dure. Mi accorgo di non riuscire a correre sciolto. Siamo solo a due ore di corsa. Penso a quanto manca all'arrivo e mi sembra quasi impossibile reggere ancora per lo stesso tempo. Con in più la salita che ci porterà in quota. Sensazioni che durano solo qualche chilometro. Ma non per Gialuca che comincia ad entrare in crisi più profonda. Il passo si assesta sui 5' 20", ma quasi con cadenza regolare ci ricorda che non ce la fa, che ha sbagliato a sottovalutare la gara, che ha dolori allo stomaco. E' il prezzo che deve pagare purtroppo. Pier mi sembra in buona condizione, ma credo con qualche strascico simile ai miei. Andiamo al piccolo trotto. Le ginocchia sono la prima parte a cedere, non più abituate a lavorare per così tanto tempo. Anche nelle altre terne la situazione non è sempre rosea. I primi crolli cominciano tutti dopo il venticinquesimo chilometro. Qualcuno con i crampi, qualcuno con problemi di stomaco. La cosa che davvero non mi piace è vedere i due compagni di squadra senza problemi stare davanti e chi sta male dietro, abbandonato a sè stesso o in compagnia dell'accompagnatore di turno. Vero, aiutare costa fatica e tutti la stanno facendo. Ma quando si è una squadra lo si deve essere sempre. Fino alla fine. Conto i chilometri che ci separano da Calolziocorte che sembra non arrivare mai e quasi rimango sorpreso quando svoltando a destra mi ritrovo sul ponte tra il Lago di Lecco e quello di Olginate. Lo scorso anno mi aveva affascinato, con un'atmosfera surreale. Non questa volta. Prima di entrare in paese sull'altra sponda ci cambiamo la divisa. Via la canottiera fradicia di sudore e addosso maglietta asciutta e lampada frontale. Se c'è una cosa che ho imparato nella mia prima Monza-Resegone è proprio questa, salire verso-e-dopo Erve asciutti. La pancia ringrazia. Siamo sulle 2h 40' e la strada si impenna. Fortunatamente nel primo tratto di paese il pubblico è presente lungo tutta la strada e aiuta a non pensarci. Ma poi per Gianluca inizia la crisi più profonda. Le gambe non vanno, i dolori aumentano. Lo sconforto segue il resto. Io e Pier cerchiamo di tranquillizzarlo. Ormai l'importante è riuscire solo ad arrivare tutti insieme. Camminiamo per lunghi tratti attraversando le scalette di Calolziocorte che tagliano i lunghi tornanti che portano all'inizio della valle. La temperatura scende. Poco prima di una curva intravediamo le tre gonnelline bianche di Chiara, Elena e Marina partite un'ora prima di noi. Anche per loro la situazione non è migliore. Anzi. Facciamo insieme un piccolo tratto di salita dove cerco di invogliarle a non mollare. Poi i lampioni finiscono. Le case lasciano spazio alla roccia scoscesa della montagna. Lungo la strada non c'è più pubblico, nè auto. Sale il silenzio. Mi volto a guardare il lago in lontananza e scopro una luna bianca e piena alle nostre spalle. Illumina la montagna, quasi a volerci aiutare nella salita, ad indicarci dove arrivare. Si potrebbe quasi vedere senza neanche bisogno delle lampade frontali. Lo tengo per me, come il mio personale scorcio da portare a casa da questa avventura. Ormai camminiamo per lunghi tratti. Ci siamo raffreddati completamente e anche quando Gianluca prova a ricominciare a correre io e Pier gli diciamo di non farlo, per non sprecare altre energie utili e perchè ormai le nostre gambe si sono raffreddate troppo. Ci impieghiamo più di mezz'ora per entrare ad Erve dove ci aspetta il primo rilevamento cronometrico. Siamo abbondantemente in anticipo sul tempo massimo del cancello. Intanto la squadra di Chiara ci raggiunge, come svegliatasi da un lungo letargo. Approfittiamo del ristoro per capire tutti e sei cosa fare. Io comunque devo salire fino in cima per recuperare il cambio-vestiti e le chiavi dell'auto. O forse è solo una scusa in più per non mollare. Arrivano tante squadre, alcuni in solitaria, qualcuno spaiato. E' strano vedere lo sfasamento delle terne, da quelle in forma che salgono compatte, a quelle in crisi che decidono di ritirarsi. C'è chi cammina, chi corre, chi si trascina. Penso allo scorso anno e mi chiedo come avevamo fatto ad arrivare fin lì senza fermarci mai. Sembra quasi impossibile. Alla fine ripartiamo in quattro. Io, Chiara, Pier e Gianluca, che dopo essere arrivati ad Erve sembra rinvigorito. Ma è un falso presentimento. Prendiamo insieme il sentiero che esce dal paese. La strada si impenna subito e dopo qualche centinaio di metri ci rifermiamo. Sono 3h 31' 15" e la nostra gara finisce lì. Gianluca non sta bene e Pier preferisce rimanere con lui (rimarrà poi in ospedale in osservazione fino al mattino per un blocco renale, nda) e ritornare in paese. Io e Chiara proseguiamo, ormai senza nessun tipo di pretesa sul tempo. Sembra quasi destino che dovesse finire così. Noi due. La lunga coda che procede lungo il sentiero rallenta molto il passo. In realtà siamo quelli più freschi di tutti. Al Pra' di ratt saliamo senza problemi. Nessun crampo e nessun strascico allo stomaco. Solo il rammarico di essere fuori gara. Il sentiero si impenna inerpicandosi tra le rocce. Fortunatamente non c'è fango come qualche settimana prima alla Monza-Montevecchia. Sembra non finire mai. Guardando verso la cima si intravedono le luci frontali tra i rami degli alberi che ci fanno sembrare tante piccole lucciole che si inseguono. Poi il profumo di tè del ristoro a metà salita scende fino quasi ad indicare la strada da seguire. Veniamo raggiunti da Lele, Marco e Paolo, mio compagno nella scorsa edizione. Proseguiamo con loro per gli ultimi due chilometri. Lungo il bosco si contano anche i feriti. Chi fermo per problemi di stomaco, chi di pressione, chi ai reni, chi per i crampi. Tutti avvolti nelle coperte termiche della croce rossa con i compagni impotenti in attesa di capire se riusciranno ad arrivare in cima. Per qualcuno invece la strada finisce in barella, verso il basso. Avvolti nel bosco cominciamo a sentire il vociare del rifugio ancor prima di vederne le luci. Sono le 2:40 quando ci arriviamo e quasi non c'è già più posto per muoversi. E la notte è ancora lunga. Salutiamo e chiacchieriamo con gli amici che ce l'hanno fatta, ognuno con i suoi tempi, ognuno con i suoi piccoli guai. Con gli zaini in spalla ridiscendiamo verso valle mentre la notte diventa mattina parlando e raccontando della nostra avventura. Che è la stessa corsa ma che è anche e sempre una corsa diversa. Una corsa che non ti perdona se non le porti rispetto. E se non hai coraggio.